John Fante era uno che sapeva scrivere. Sapeva farlo e non lo dava a vedere, senza sbattertelo in faccia alla Ellroy (che pur apprezzo). E aveva anche un’altra qualità: sapeva “quando” scrivere bene.
È la storia a farla da padrone in La confraternita del Chianti, non l’autore. L’autore la scrive e la fa vivere al lettore proprio come l’hanno vissuta i protagonisti del romanzo.
La confraternita del Chianti non è un capolavoro e Fante lo sapeva. Però è un libro onesto, dove la storia, anche quando pare stereotiparsi, è veritiera perché guardata dagli occhi del protagonista (un alter ego dello stesso Fante). Nella prima parte, noiosetta ma veloce, anche la scrittura, col suo stile sobrio e privo di impennate, asseconda l’evolversi della vicenda per come la vive il protagonista.
Poi arriva il capitolo “Diciotto”. La storia prende una piega diversa, entusiasmante, divertente e amara in modo delizioso. Una riga si ride, l’altra ci si interroga sull’utilità dell’esistenza; non sono i colpi di scena a dare brio, ma fatti apparentemente prevedibili e banali. Eppure l’onestà con cui Fante narra tutto ciò rende la storia importante perché reale e reale perché non censura niente: demenza e istintività viaggiano a braccetto con gli interrogativi ultimi, in un’autenticità di esperienziale unica.
La confraternita del Chianti non sarà il miglior romanzo del ‘900 e forse nemmeno del 1977, ma va dritto al cuore.
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