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I miserabili di Victor Hugo

Scritto mercoledì 21 Giugno 2017

I miserabili è un romanzo di Victor Hugo pubblicato per la prima volta nel 1862. Che decennio meraviglioso per la letteratura, con Delitto e castigo (1866) di Dostoevskij e Guerra e pace (1869) di Tolstoj! Probabilmente tre romanzi che meritano un posto nella top ten di tutti i tempi.

Avrete già intuito che ho apprezzato la lettura, e non poco.

I miserabili è il primo libro di Hugo che leggo, e anche il primo classico francese che mi piace. Ne ho letti pochissimi, praticamente solo altri due: Madame Bovary e Viaggio al termine della notte. Entrambi, più che deludermi, non mi hanno toccato: troppo distanti da me per sensibilità e stile narrativo. I miserabili, invece, mi è arrivato dritto al cuore.

Voto

9.5

I miserabili è un romanzo di Victor Hugo pubblicato per la prima volta nel 1862. Che decennio meraviglioso per la letteratura, con Delitto e castigo (1866) di Dostoevskij e Guerra e pace (1869) di Tolstoj! Probabilmente tre romanzi che meritano un posto nella top ten di tutti i tempi.

Avrete già intuito che ho apprezzato la lettura, e non poco.

I miserabili è il primo libro di Hugo che leggo, e anche il primo classico francese che mi piace. Ne ho letti pochissimi, praticamente solo altri due: Madame Bovary e Viaggio al termine della notte. Entrambi, più che deludermi, non mi hanno toccato: troppo distanti da me per sensibilità e stile narrativo. I miserabili, invece, mi è arrivato dritto al cuore.

Breve trama de I miserabili

I miserabili - un romanzo di Victor Hugo (prima edizione italiana)

Jean Valjean viene liberato dopo 19 anni di lavori forzati. Rinchiuso per aver rubato del pane, la sua pena si è via via inasprita per i vari tentativi di fuga falliti.

Una volta libero, è gravato dal passaporto di ex forzato: il suo ingresso in ogni paese viene segnalato alle forze dell’ordine, gli alberghi non l’accolgono e i paesani non gli danno ospitalità.

Finalmente trova alloggio nella povera casa del vescovo, un sant’uomo che vive in semi-povertà con la sorella e la perpetua. Abbagliato dagli unici oggetti di valore del prelato – posate d’argento e candelabri dorati – durante la notte se ne appropria e si dà alla fuga, ma viene subito arrestato. Il vescovo lo scagiona dicendogli “mio buon amico, avete dimenticato l’argenteria” e aggiunge, in modo che solo Valjean senta:

Jean Valjean, fratello mio, voi non appartenete più al male, appartenete al bene. Io ho comprata la vostra anima: la sottraggo ai pensieri neri e allo spirito della perdizione, e la regalo a Dio.

Il giorno seguente, frastornato dagli eventi, Valjean si imbatte in un trovatello in aperta campagna. La sorte si accanisce su Valjean: l’ex forzato, in uno stato di trance, ferma col piede una moneta caduta al trovatello. Il derubato lo denuncia e la polizia si mette sulle sue tracce; se lo prendono l’aspetta il carcere a vita per recidiva. Ma una battaglia ben più importante si sta combattendo nel suo cuore:

il perdono di quel prete era il più formidabile attacco che avesse potuto sostenere la sua anima; che se la sua durezza avesse potuto resistere a questa clemenza, non sarebbe stata mai più vinta; che se cedeva, sarebbe stato necessario rinunciare per sempre a quell’odio di cui gli uomini gli avevano riempito il cuore e che gli piaceva; che bisognava o vincere o essere vinti, e che la battaglia colossale e decisiva era incominciata tra la sua malvagità e la bontà di quell’uomo.

Ritroviamo Jean Valjean più tardi quando, per un colpo di fortuna, è riuscito a farsi accogliere in un paese dove non gli hanno richiesto il passaporto, e ha preso il nome di Madeleine. Il suo lavoro da forzato gli ha insegnato qualcosa: mette a frutto un’intuizione, il successo gli arride e in breve tempo diventa il maggior imprenditore della città. La sua umanità, stravolta ed esaltata dall’incontro con il vescovo, cambia la vita di tante persone. Diviene così popolare che lo nominano sindaco.

In paese solo il maresciallo Javert dubita di lui: pensa di riconoscere nel sindaco Madeline il detenuto Valjean.

Quando un uomo viene arrestato per furto e, riconosciuto da ex compagni di cella come Jean Valjean, viene condannato all’ergastolo, il vero Jean Valjean si trova di fronte a un bivio: continuare la sua vita, vissuta umilmente nella fede e prodigandosi per il prossimo, o mandare tutto a monte rivelando la sua identità, ma salvando un innocente da una condanna certa.

Sembra la fine, invece è solo l’inizio di un’avventura che porterà Jean Valjean fino a Parigi, braccato dal suo capitano Acab (Javert), in un susseguirsi di vicende e personaggi che regalano un vivido spaccato della Francia del primo Ottocento e, soprattutto, dell’umanità intera.

Le dissertazioni di Hugo

Victor Hugo, autore de I miserabili
Victor Hugo nel 1873, foto di Etienne Carjat (crediti)

Un ostacolo non indifferente alla lettura de I miserabili sono le corpose dissertazioni con cui Victor Hugo tratteggia il quadro storico-sociale di inizio Ottocento.

Sono tante e sono lunghe – anche un centinaio di pagine – ma sono anche belle (quasi tutte). A partire dalla prima sulla battaglia di Waterloo, descritta con un entusiasmo e una partecipazione che vincono sulla minuziosità dei particolari. Dopo averla letta ho avuto bisogno di vedere il film Waterloo, per goderne anche visivamente.

Alcune sono innegabilmente pesanti, come quella sugli ordini di clausura, sulla storia delle fogne di Parigi (!) e sull’argot, la lingua dei malviventi di Parigi.

In generale non vedo di buon occhio queste “finestre sulla Storia” all’interno di un romanzo: ritengo che tutte le informazioni dovrebbero essere fornite contestualmente alle vicende. Trattandosi di un’opera scritta 150 anni fa, mi sono sforzato di leggerle per rispetto all’autore e alla bellezza del romanzo, ma si possono agilmente saltare – e nel caso dell’argot l’ho fatto – senza inficiare la bellezza della lettura.

La verve di Hugo: ironia e poesia

Se potevo aspettarmi momenti di autentica poesia, come questa impareggiabile definizione di “inverno”:

L’inverno: niente calore, niente luce, niente mezzogiorno, la mattina e la sera si toccano; nebbia, crepuscolo, la finestra è grigia, non ci si vede a lavorare. Il cielo è uno spiraglio, tutta la giornata una cantina. Il sole pare un povero.

la vera sorpresa sono stati gli attimi di ironia del romanzo: una goduria per gli occhi e per la mente. Ecco due esempi:

La signora Victurnien aveva cinquantasei anni e univa la maschera della bruttezza a quella della vecchiaia. Voce tremante, volontà feroce. Sembra quasi impossibile: eppure quella vecchia era stata giovane.

Aveva avuto un fratello prete, il quale era stato per trentatré anni rettore dell’Accademia di Poitiers, morto a settantadue anni. «L’ho perduto giovane», diceva. Questo fratello, di cui rimanevano pochi ricordi, era un avaro pacifico, il quale si credeva in obbligo di fare l’elemosina a quanti poveri incontrava, ma non dava loro che delle monete fuori corso, trovando così il modo di andare all’inferno per la strada del paradiso.

I miserabili e la fede

La cosa che mi ha sbalordito è la maturità di fede narrata da Hugo. Lui, che non aveva certamente posizioni clericali (durante il censimento del 1872 alla domanda se era cattolico rispose “no, sono un libero pensatore”), ha ricostruito passo a passo il percorso della fede attraverso la vicenda di Jean Valjean.

Per prima cosa, è un incontro che gli cambia la vita – l’incontro col vescovo. Tutto è molto esplicito nel prelato: la carità, il perdono, la fede nel cambiamento che Dio potrà operare in Valjean. Il galeotto ne esce stordito, profondamente colpito. E inizia a vivere per il bene del prossimo. Non mancheranno le prove lungo il suo cammino, fino al passo indietro per il bene di Cosette, sua figlia adottiva: l’accompagna all’altare, affidandola al marito e rinunciando alla gioia di essere padre (adottivo).

Bellissimo il confronto con Javert, suo persecutore fin dall’inizio. Verso l’epilogo del romanzo, Valjean gli salva la vita durante la rivolta di Parigi, quando avrebbe potuto disfarsene. Poco dopo, Javert lo arresta.
Un inseguimento durato una vita giunge al termine: Javert ha finalmente tra le mani Jean Valjean. Il galeotto si arrende, ma chiede un’ultima cosa al suo carceriere. Sarà questo ennesimo attimo di bontà la spallata decisiva che apre una breccia nel cuore dell’ispettore.

Javert libera Valjean; non per riconoscenza, ma perché è stato scavato come una roccia dal lento ma incessante gocciolio dell’acqua. Un’intuizione l’ha trafitto: la bontà di quel galeotto è la trasfigurazione di Cristo.

Javert si trova di fronte a un abisso: avrà la forza di saltarlo e cominciare una nuova vita?

Jean Valjean lo sconcertava. Tutti gli assiomi che formavano i punti d’appoggio della sua vita crollavano dinanzi a quell’uomo. La generosità da lui usata a suo riguardo l’opprimeva. Altri fatti che aveva fino allora considerato menzogne e pazzie, ora gli ritornavano alla memoria come tante verità; dietro Valjean vedeva apparire Madeleine, e le sue immagini si sovrapponevano in modo da formarne una sola, che riusciva vulnerabile. Sentiva penetrargli nell’anima qualcosa di orribile, vale a dire l’ammirazione per un forzato. È possibile rispettare un galeotto? Se ne indignava e non poteva sottrarvisi. Per quanto si dibattesse, si vedeva costretto a riconoscere nel suo intimo l’esemplarità di quel miserabile; questo era odioso.

Questa nuova coscienza non lascia scampo: o aderire a una novità rivoluzionaria, o abbandonarsi all’oblio.

Rimanere nell’antica onestà non bastava più: tutto un ordine di fatti inattesi sorgeva e lo soggiogava. Tutto un mondo nuovo si rivelava alla sua anima: il beneficio accettato e reso, l’altruismo, la misericordia, l’indulgenza, le violenze fatte dalla pietà all’austerità, la parzialità, non più condanna definitiva, non più dannazione, la possibilità di una lacrima nella pupilla della legge, una non si sa quale giustizia secondo Dio che si opponeva alla giustizia secondo gli uomini. […]

Era dunque vero, si diceva, che esistevano le eccezioni, che l’autorità poteva essere confusa, che la regola poteva cadere dinanzi a un fatto, che non tutto si inquadrava nel testo di un codice, che l’imprevisto si faceva obbedire […]

C’è dunque qualcosa di più del dovere?

Il finale, doloroso quanto salvifico, contiene anche un fortissimo messaggio sociale. Una società miope, incapace di perdonare e accettare figure come le prostitute e gli ex galeotti – nemmeno dopo una vita di redenzione – genera solitudine e dolore. (Il grande impegno sociale di Hugo non era fatto solo di parole: è stato un grande attivista a favore degli ultimi, degli emarginati; un po’ alla Tolstoj, solo meno matto, ma di poco.)

L’unica pecca, in materia di fede, è un’idea che sembra passare sullo sfondo: se sei un bravo cristiano la vita ti dovrebbe girare bene, ma se ti gira male, sarai solo e infelice come tutti. Come se la felicità dipendesse dalla giustizia umana, dal riconoscimento del valore della persona da parte della società. Secondo questa visione, Cristo stesso sarebbe stato un infelice.

Ma poco importa, perché lo scrittore fa arrivare la grande mano di Dio dove c’è bisogno di sollevare, sostenere, soddisfare l’insaziabile anelito del cuore.

3 Commenti

  1. granchioletterato

    Corposa e completa recensione. Bisogna leggerselo sì. Quale film, secondo te, è il miglior adattamento?

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    • Martino Savorani

      Dopo averlo letto ritengo che qualsiasi adattamento o riduzione sia impossibile. Si potrebbero fare film sui singoli personaggi minori, come il vescovo o Fantine, oppure una serie tv da una cinquantina di puntate da un’ora. Non ho visto film tratti dal libro, se non quello con Depardieu. Lo ricordo male, ma di sicuro non era un capolavoro. Ho sentito parlare bene del musical di qualche anno fa, ma finché è fresco il ricordo del romanzo non mi azzardo a vederlo.

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  2. TheShadow

    Un articolo molto interessante e scorrevole per quanto riguarda il lessico.

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