Brevi cenni storici sull’elezione e la rinuncia di Papa Celestino V
Alla morte del papa Niccolò IV (4 aprile 1292) si accese una disputa per il seggio papale tra due potenti famiglie romane: gli Orsini e i Colonna. La diatriba di potere portò il conclave a un’impasse imbarazzante che durò – complice anche il sopraggiungere della peste – ben 27 mesi. Alla fine si decisero per Pietro Angelerio, detto Pietro da Morrone, un frate eremita conosciuto e rispettato in tutta Europa: uomo di fede col dono della profezia, ma anche ignorante in materia di governo; proprio per questo i potenti del clero romano pensavano di poterlo gestire e manipolare con semplicità.
Durante il suo breve pontificato, Pietro Angelerio – che prese il nome di Celestino V – divenne cosciente dei propri limiti e dei raggiri a cui era soggetto, giungendo in pochi mesi a rinunciare alla carica papale. A seguito di ciò, il nuovo papa Bonifacio VIII si adoperò prima per tenerlo sotto controllo, poi per catturarlo e imprigionarlo. Morirà nella sua cella il 19 maggio 1296 all’età di 87 anni.
Pietro Angelerio (Celestino V) e Ignazio Silone
In L’avventura di un povero cristiano Silone affronta una pagina di storia (vera) per raccontare la storia (altrettanto vera) della sua fede.
Sono un socialista senza partito e un cristiano senza Chiesa.
Così si definiva Silone, che con L’avventura di un povero cristiano narra il suo essere cristiano senza Chiesa. La vicenda di Pietro da Morrone è perfetta per Silone: con il frate condivide la geografia – Pietro si era ritirato fra i monti di Sulmona, nell’Abruzzo di Silone – e una fede cristiana che non trova corrispondenza nell’istituzione Chiesa: ne respinge la temporalità – predominante sulla spiritualità -, gli intrighi politici, la corruzione e quant’altro la allontana dall’autentica esperienza cristiana.
Le prime venti pagine de L’avventura di un povero cristiano sono una introduzione che ha per protagonista lo stesso Silone che, attraverso il dialogo con un amico e la rievocazione di alcuni momenti della sua storia personale, affronta il tema del rapporto tra fede e Chiesa.
Il resto del libro è un romanzo scritto in forma teatrale: fatta eccezione per qualche breve descrizione introduttiva alle varie scene, è tutto in forma di dialogo. Se questo aspetto può spaventare, dopo poche pagine “cadrete” nel romanzo, dimenticandovi o quasi della sua singolare struttura.
Il modo migliore per invogliarvi a recuperare e leggere questo libro dimenticato, è proporne alcuni stralci.
“Se Cristo avesse paura dei sorci non starebbe in chiesa”
Questa frase (detta sorridendo da fra Ludovico) è emblematica: da un lato definisce “sorci” chi frequenta la chiesa, in particolare il clero; dall’altra racconta la misericordia di Dio, che non si scandalizza di fronte ai peccatori.
Nel romanzo c’è spazio anche per la fine ironia di Silone, come in questo dialogo a tre:
Baglivo: Forse voi ne sapete più di me, fra Pietro, ma è mio dovere informarvi che tra codesti individui, voglio dire tra codesti fraticelli cosiddetti spirituali, v’è gente d’ogni risma e anche autentici farabutti.
Fra Pietro: Può darsi, ma a me non risulta.
Baglivo: Sapete che uno della loro setta, davanti al tribunale ecclesiastico di Macerata, ha confessato di aver fornicato addirittura con la moglie del diavolo?
Fra Pietro: Ha confessato? Ma un uomo di legge come voi, signor baglivo, sa meglio di me che cosa un giudice esperto riesce a far dire a un imputato in catene. E poi se quell’imputato ha detto il vero se ne dovrebbe dedurre che il diavolo è regolarmente sposato. Non è del tutto ribelle dunque, come si racconta.
Cerbicca: Ah, per questo di solito egli è rappresentato con le corna? Il poveretto è sposato. Non capisco però una cosa, come possa essere peccato fare un torto al diavolo! Ancora una domanda: il fortunato fraticello, voglio dire l’imputato, ha dato l’indirizzo della generosa dama, ne ha fornito dei particolari? È giovane? Grassottella?
Baglivo: Lasciatemi in pace. Non so altro.
Cerbicca: Avete dimenticato di riferirci l’essenziale. Quel fraticello ha dovuto pagare, oppure la buona signora…
Il maledetto “a fin di bene”
Il maledetto “a fin di bene”. Figli miei, non lo dimenticate: c’è solo il bene, puro e semplice; non c’è “a fin di bene”.
fra Pietro da Morrone
La certezza della fede
Celestino V: Non lasciate avvelenare il vostro cuore dall’odio verso i falsi cristiani che ci perseguitano. Quei disgraziati che fanno commercio di Cristo, meritano soltanto la nostra pietà. Malgrado l’oro che essi ammucchiano, sono dei poveretti da commiserare. Malgrado le armi, la servitù in livrea, le vesti di seta, il cerimoniale faraonico di cui si attorniano, quelli di essi che vi trovano piacere, sono degli incoscienti, gli altri, degli infelici. In quanto al vostro distacco dalle cose vane del mondo, poiché vi conosco, so che non è necessario insistervi; ma cercate di non soffrire della loro privazione. È forse una penitenza la pulizia del corpo? E perché dovrebbe esserlo avere pensieri e sentimenti puliti? Siate lieti.
Vi sarà sempre qualche cristiano che prenderà Cristo sul serio, qualche cristiano assurdo, come ama dire Bonifazio. Poiché gli stessi che lo tradiscono, non possono distruggere il Vangelo. Lo possono nascondere, ne possono dare interpretazioni di comodo, ma non distruggerlo. Per cui ogni tanto qualcuno lo riscoprirà e accetterà con animo sereno di andare allo sbaraglio.
Fra Clementino: E noi? Non possiamo mica addormentarci nella fiducia che vi saranno sempre cristiani onesti e coraggiosi. Al punto in cui siamo ridotti, che possiamo fare?
Celestino V: Ebbene, mi pare che anzitutto ci spetta la funzione della massaia che la sera ricopre di cenere la brace del camino, per poter più facilmente, l’indomani, riaccendere il fuoco. In più vi sarà il lavoro continuo di collegare tra loro e rinfrancare gli amici dispersi. Si deve rifare sempre daccapo la tela che la violenza distrugge.
L’avventura di un povero cristiano fa una cosa rara: racconta di un uomo che vive una fede autentica. Il difetto di gran parte della letteratura che propone personaggi ecclesiastici è proprio l’assenza o l’incapacità di presentare la fede (mi vengono in mente, ad esempio, Il nome della rosa di Eco e La palude dei fuochi erranti di Baldini). Chiaramente ogni scrittore può scegliere di tratteggiare i suoi personaggi come meglio crede, ed è altrettanto vero che la Chiesa da sempre è abitata anche da farabutti, ma quando ci si addentra in una realtà come questa, presentare solo frati/suore/preti/cardinali/papi senza fede è poco realistico e molto limitante per un’opera.
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