Ho sempre avuto un debole per le rubriche: volendo, potrei aprirne una al giorno. Ma chi ha un debole per le rubriche è come chi ha un debole per le donne: difficilmente è fedele. La mia infedeltà è così grande che cambierei una rubrica al giorno, motivo per cui, dopo alcune brusche separazioni, ho deciso di non tenerne più.
Ma ecco che il Frogstock mi chiede un contributo e allora mi dico: è l’occasione buona per aprire “Second coming”, la mia rubrica annuale. Il titolo è un omaggio al secondo e ahinoi ultimo album degli Stone Roses, e sta a indicare che gli album di cui vi parlerò meriterebbero di essere riscoperti e rivalutati dal pubblico e dalla critica.
Ogni anno vi proporrò un album che è passato inosservato in Italia o è stato dimenticato, del quale decorre il decimo, ventesimo, trentesimo, ecc. anniversario. Iniziamo tornando indietro di 30 anni con “Boomtown” del duo David + David.

Uscito nel 1986, ha riscosso un discreto successo negli Stati Uniti: un paio di singoli ai piedi della top ten e un disco d’oro per i due David; poi il nulla.
Ma facciamo un passo indietro. Innanzitutto i due David sono David Baerwald e David Ricketts. Si incontrano in un pub di Los Angeles nel 1984: entrambi polistrumentisti, diventano prima amici, poi collaboratori. Scrivono insieme “Boomtown” e, al termine del tour promozionale durato un anno, si definiscono “an explosive musical collaboration”. Peccato che poco dopo la collaborazione esploda sul serio: il duo si scioglie senza rivelare il perché. Bearwald intraprende una discreta carriera solista – il suo primo album vede alla chitarra addirittura Joni Mitchell – ma senza mai bissare il successo di “Boomtown”; Ricketts lascia al mondo un pugno di collaborazioni di prestigio e niente più.
Torniamo a “Boomtown”. Siamo di fronte a un album clamoroso: 9 canzoni, 40 minuti di un’intensità e una solidità impressionanti per degli esordienti. Il loro cantautorato è un mix fra il Bruce Springsteen di “Born in Usa”, per via di certe sonorità e soprattutto per l’affondo sociale dei testi, e gli U2 degli anni ’80: c’è più di un’affinità fra la voce di Bearwald e quella di Bono. Tuttavia, ascoltando “Boomtown” non avrete mai l’impressione di un lavoro “ispirato a” o “debitore di”, tant’è la maturità artistica e l’originalità della ricetta musicale dei David.
Punto forte dell’album sono i testi, affilati come raramente accade. Affondano nell’ipocrisia dell’America (River’s gonna rise), nel lato oscuro delle persone (Welcome to the boomtown), nel fallimento dei sogni e delle speranze della gioventù (Swallowed by the cracks), portando l’ascoltatore in viaggio fra le macerie dell’umanità.
La voce di Bearwald è pulita, ma capace di inorgoglirsi e struggersi a dovere durante ogni discesa nei bassifondi. Le musiche, al contrario dei testi, sono spesso ariose: danno l’idea di una certa leggerezza. Una leggerezza che, forse, richiama la superficialità con cui i personaggi cantati nelle liriche buttano al vento la loro vita.
Questo paradosso è più evidente nelle tracce di maggior successo: i brani di apertura Welcome to the boomtown, Swallowed by the cracks e Ain’t so easy, e il capolavoro che chiude l’album, Heroes. In mezzo troviamo la struggente Rivers gonna rise, che invoca una inevitabile, catastrofica apocalisse (notevole la chiusura strumentale) e All alone in the big city, che è semplicemente solitudine in musica. Due ballate capaci di restituire la disperazione e la violenza (la prima), la malinconia e l’isolamento (la seconda) con un’intensità fisica da far male.
Chiusura con nota di merito su Heroes, l’unico brano scritto interamente da Baerwald. Il titolo richiama il celeberrimo brano di un terzo David: Bowie, e il confronto è non solo istintivo, ma richiesto. Alla bellissima utopia del Duca Bianco, Bearwald contrappone uno scenario apocalittico e brutale: vanno in scena gli sconfitti, corpi insepolti e avariati, sognatori morti e così via. Il ritmo trascinante di Bowie qui diventa una ballata, e il “we can be heroes” diventa un passivo: “let just be heroes”. Insomma, nove anni dopo, i David + David calcano le orme di Bowie ribaltando il sogno in un’implorazione, riuscendo nel miracolo di incidere un brano che – lo dico? Ok, lo dico – può stare lassù, nell’olimpo delle canzoni perfette, al pari degli eroi di David Bowie.
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