La trama di Wolfen, la belva immortale (senza spoiler)
L’ex capitano di polizia Dewey Wilson (Albert Finney) viene richiamato in servizio per trovare il responsabile del brutale assassinio del miliardario Van der Veer, sventrato insieme alla moglie e alla guardia del corpo. Viene affiancato nelle indagini dalla psicologa forense Rebecca Neff (Diane Venora), con la quale si instaura un certo feeling.
L’omicida colpisce ancora: prima un senzatetto in una zona degradata del South Bronx, poi un operaio su un ponteggio. Sulle vittime vengono rinvenuti peli non umani, riconducibili a una qualche specie di lupo difficile da identificare. Lupi a New York? E poi i lupi non attaccano l’uomo…

Dewey viene aiutato dal medico legale Whittington (Gregory Hines) e da uno zoologo. Sarà quest’ultimo a instradarlo involontariamente quando paragona le usanze dei lupi a quelle dei nativi americani. Dewey rintraccia Eddie Holt (Edward James Olmos), un nativo che aveva arrestato anni prima. I due hanno un colloquio ad alta tensione in cima al ponte di Manhattan; Holt si dichiara capace di trasmigrare nel corpo degli animali, attirando così i sospetti del poliziotto.
Ma la verità è molto più sorprendente…
Wolfen chi?
Sono vent’anni che setaccio la filmografia horror in cerca di gemme nascoste e solo oggi ho scoperto Wolfen.
Stritolato dall’uscita quasi contemporanea di L’ululato e Un lupo mannaro americano a Londra e seppellito dai successivi In compagnia dei lupi (di Neil Jordan) e Unico indizio luna piena (tratto da un romanzo di Stephen King), Wolfen è finito nel dimenticatoio. Eppure, a mio parere, mangia in testa a tutti i titoli citati.
Il fatto è che Wolfen se la gioca su tutt’altro piano. Più che a un film di licantropi, andrebbe paragonato a L’ultima onda di Peter Weir per il suo mescolare tradizioni ancestrali e horror. Inoltre abbiamo delle indagini di stampo poliziesco calate in un’atmosfera metropolitana premiata da una fotografia anni ’70 che esalta la distanza tra la quiete apparente della modernità e la brutalità primordiale dei fatti di sangue.
Wolfen si fa notare anche sul lato tecnico: seguiamo le mosse dell’assassino attraverso i suoi stessi occhi, dai quali vediamo il mondo a colori distorti, con un effetto simile all’infrarosso. La tecnica è quella dell’in-camera effect ed è la prima volta che viene impiegata in un film (la rivedremo in Predator). L’effetto è straniante e misterioso. Chi è che guarda? Un lupo mannaro, un cyborg o cos’altro?

E poi c’è la scenografia impagabile del South Bronx: l’area degradata che vediamo è reale, non c’è stato bisogno di aggiustamenti, era tutto “perfetto” così. Solo la chiesa è stata appositamente costruita per il film: più avanti capiamo il perché.
Perché Wolfen è poco conosciuto e apprezzato?
La domanda me la sono fatta scorrendo recensioni e pareri trovati online. Anche al botteghino fu un flop…
Io credo che il motivo dell’insuccesso e dell’oblio di Wolfen sia dovuto proprio alle sue qualità: è un horror atipico, che non mostra completamente l’orrore – benché non manchino particolare truculenti, come la mano mozzata che stringe ancora la pistola – e sfugge a facili catalogazioni: inserirlo tra i film di licantropi è una doverosa imprecisione.

Il film, tratto dal romanzo The wolfen di Whitley Strieber, si spinge oltre con un potente messaggio sociale e generazionale che alcuni hanno etichettato, semplificandolo, come ecologista.
Quei grandi cacciatori sono diventati i vostri spazzini. Le vostre immondizie, i vostri rifiuti umani sono diventati il loro cibo. […] Ai loro occhi sei tu il selvaggio. Avete la vostra tecnologia ma avete perso: siete vuoti dentro.”

Nel bellissimo dialogo tra Dewey e i nativi, che fa da preludio al finale del film, c’è tutta l’angoscia di una civiltà – la nostra – in via di disgregazione, che da un lato si espande a discapito della natura, dall’altro vede gli individui sempre più soli e “vuoti dentro”, al punto da essere addirittura sacrificabili (nessuno piangerà la morte degli emarginati). C’è il progresso, ma dov’è finito l’essere umano? In questo senso è molto efficace l’impiego della chiesa diroccata, simbolo di un’umanità che ha messo ai margini anche Dio e, in senso lato, la spiritualità.
Il finale, molto significativo ma privo di una vera e propria scena madre, mostra una via di salvezza, forse l’unica percorribile. E svela un dettaglio rilevante (spoiler!): i lupi hanno qualcosa di soprannaturale, lo si intuisce da come appaiono e scompaiono all’ultimo piano del grattacielo. Che i lupi non siano “solo” lupi, ma qualcosa di più è fondamentale per dare maggiore spessore alla storia, altrimenti riassumibile in “la vendetta degli animali in via di estinzione”. Non è la natura che si ribella, ma la Natura che ci chiede di cambiare, di ritrovare noi stessi.
Curiosità: Dustin Hoffman si è proposto per il ruolo di protagonista, ma è stato respinto dal regista Michael Wadleigh, che voleva assolutamente Albert Finney. Si narra che sia stato l’unico rifiuto incassato da Dustin Hoffman nella sua lunga carriera.
Il miglior commento l’unico che ha capito la vera natura di questo piccolo “sfortunatissimo” gioiello di film. Grazie
Grazie, è consolante sapere che non sono l’unico fan di Wolfen!