La trama di Harakiri
Agli inizi del XVII secolo, la pacificazione violenta del Giappone ad opera dello shogunato, ha provocato la caduta di molti signori della provincia e la conseguente creazione di un esercito di ronin (samurai caduti in disgrazia) privi di impiego e costretti a muoversi verso le città.
Nel 1630, uno di questi, Hanshiro Tsugumo, si presenta alle porte della casa Iyi, nei pressi della città di Edo. Al cospetto dell’intendente della nobile famiglia chiede che, data la situazione di disgrazia e miseria in cui è caduto dopo la caduta del signore di Geishu, gli sia concesso, nella dimora, un luogo in cui compiere onorevolmente seppuku.
Con l’intenzione di dissuaderlo, l’intendente gli narra della sorte di un altro ronin, Motome Chijiiva, presentatosi qualche tempo addietro con la stessa richiesta.
(fonte: Wikipedia)
Harakiri, ovvero: i samurai secondo Kobayashi

Il film è straordinario. L’edizione restaurata mostra in tutta la sua bellezza il bianco e nero, le scenografie pulite ed essenziali, la cura dei dettagli: dai costumi alla grande espressività dei volti. La colonna sonora è minimale, tuttavia decisiva in certi passaggi.
Ma il top dei top è l’intreccio: gli avvenimenti vengono raccontati dai protagonisti con una serie di flashback; così una trama che inizialmente sembra semplice e lineare, all’improvviso si movimenta e da interessante diventa avvincente, fino all’epico finale.
L’assenza del doppiaggio è una vera manna, visto lo scempio che si faceva all’epoca doppiando il cinema giapponese (forse per risparmiare?). In questo modo possiamo udire le voci originali, molto caratteristiche, in particolare quella del protagonista, interpretato da un immenso Tatsuya Nakadai (da noi sarebbe come dire Vittorio Gassman).

Quanto alla morale, diceva Kobayashi in un’intervista del ’63: “Ogni epoca, la nostra come quella dei samurai, ha prodotto dei capi autoritari del tipo di quello contro il quale lotta il nostro ronin. Attraverso la storia antica è di storia contemporanea che si vuole parlare”.
Harakiri parla di onore, giustizia e tradizione. È un atto di accusa verso una società che non vive più le ragioni per cui esistono certe leggi, ma le applica con formalismo, senza umanità, anche ingiustamente. I samurai del casato Iyi sono così simili ai farisei del Vangelo!
Due cose mi hanno sorpreso:
- il mondo in cui sconfessa il mito dell’onore dei samurai, contrapponendo samurai socialmente rispettabili ma senza radici, aridi di cuore, a un ronin caduto in povertà ma autenticamente samurai
- come un semplice film riesca a farmi capire – e quasi accettare – il rito dell’harakiri, senza farne un’apologia o spiegarlo in alcun modo.
Non è sensazionale?
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