Forse lo si può definire un libro generazionale, purtroppo però rimane relegato a un passato che non c’è più, senza bucare la Storia. Questo è forse il limite maggiore del romanzo.
Tuttavia è un libro interessante, ben scritto, che ha il suo punto di forza nell’osservazione della realtà. Arpino non guarda, scruta l’uomo e i suoi travagli interiori ed esterni, tratteggiando personaggi che vivono veramente. E in alcuni istanti affiora il nodo della questione: come nella vita vera, si vive tutto cercando di fare la cosa giusta, ma poi succede che ricasando un po’ brilli per la stanchezza e per la grappa, ci si fermi un secondo e, guardandosi negli occhi, ci si chieda: “ma tu ci credi in Dio?”.
La cosa commovente di Arpino è la tenerezza con cui modella i suoi personaggi. Li “lascia vivere” senza decurtarne nemmeno un lembo in favore di un’idea o un messaggio che l’autore stesso avrebbe intenzione di far passare. Perché Gli anni del giudizio è un libro fortemente intriso di politica, ma Arpino sa che il respiro del cuore umano non si ferma lì, non si accontenta nemmeno di quello in cui crede, di quello che l’appassiona.
Sbaglierò, ma di romanzi così oggi non se ne trovano più. Gli editori e i lettori sembrano preferire una trama coinvolgente splatterizzata su 500 pagine che si leggono come acqua corrente. Sbaglierò, ma a me interessa ancora l’umano.
0 commenti