La grande occasione: un film di guerra e di fede
La storia è quella di Desmond Doss, un ragazzo della Virginia che si arruola da volontario per partecipare come medico alla II Guerra Mondiale.
Doss, cristiano avventista, ripudia l’uso delle armi e rifiuta categoricamente di toccare un fucile (l’addestramento all’uso del fucile era obbligatorio anche per i medici). Questo “no” mette a repentaglio la sua vita: prima viene picchiato dai suoi compagni, poi incarcerato e portato davanti alla corte marziale, rischiando anni di prigionia per insubordinazione. Ma Doss vince e viene spedito al fronte.
Partecipa alla battaglia di Okinawa, dove salverà la vita a 75 compagni senza sparare un colpo. Sarà il primo obiettore della storia a essere insignito della medaglia d’onore, la più alta onorificenza militare americana (nelle foto: premiato dal Presidente Harry Truman, con la moglie, uno scatto recente).


La battaglia di Hacksaw Ridge è un po’ la summa dell’intera produzione gibsoniana: c’è la fede, c’è la guerra, c’è la passione. Una passione, come dice bene il critico Bruno Fornara, vissuta nei suoi due significati: “la passione appassionata per qualcosa che ti attrae, e tragica: qualcosa che ti disfa”.
Forse non può essere definito un capolavoro, ma un grande film sì, perché riesce a raccontare una fede vera, scevra di moralismo e buonismo, e ci regala alcune delle migliori scene di guerra della storia del cinema.
Genesi di Desmond Doss
Il rapporto difficile con il padre alcolista, una madre molto devota, l’amato fratello e quella volta che, picchiandosi, ha rischiato di ucciderlo. E poi l’amore con una bella infermiera, la decisione di arruolarsi e di sposarsi. Tutto questo per farci capire chi è Desmond Doss e perché si comporterà così in guerra.

Questa prima parte è girata in maniera molto classica, ma non banale. Ci spiega il carattere e le idee Desmond senza proclami o “spiegoni”: semplicemente mostrandolo in azione.
L’addestramento con il sergente maggiore Hartman Howell
Il momento dell’addestramento è un grande classico dei film di guerra americani. E Mel Gibson se la cava egregiamente.
La scena dell’ingresso di Doss nella camerata è magistrale: in un minuto vengono presentati i personaggi principali con singole pennellate – uno sguardo, un sorriso, una battuta – che identificano il duro del gruppo, il fighetto, il lavativo, quello che diventerà amico di Doss, e via così. Poi arriva il sergente Howell, interpretato da un grande Vince Vaughn.

Si presenta con un paio di battute gridate in faccia alle reclute e il pensiero va immediatamente al sergente maggiore Hartman di Kubrick. Ma il paragone, per una volta, non ci sta. Se Hartman è inarrivabile, Howell è reale. Ha un impatto meno drastico sulle reclute, tanto che il suo personaggio finisce per conquistare lo spettatore, anche umanamente.
La guerra secondo Mel Gibson
Il tanto atteso momento dell’azione è arrivato: i nostri sono al fronte, pronti alla battaglia di Okinawa. Per raggiungere la città bisogna superare un ostacolo naturale: la costiera rocciosa. La scalata avviene tramite un’enorme scala di corda, mentre i cannoni della marina battono il campo di battaglia per impedire al nemico di ostacolare l’ascesa. In cima, a distanza di sicurezza dall’artiglieria navale, i giapponesi hanno costruito una linea difensiva fatta di bunker e trincee.

Il primo assalto è spettacolare. Mel Gibson riesce a mostrare la caoticità della guerra in modo estremamente chiaro e ordinato. I militari avanzano in un terreno fangoso, ridotto una groviera dall’artiglieria pesante, verso un nemico celato dai fumi delle bombe. I colpi di fucile e di mitra si conficcano nella carne, le bombe a mano dilaniano corpi e terra, i lanciafiamme avvolgono e annientano aria e vite umane. In questa mischia mortale l’occhio del regista sale a mezz’aria per mostrare il campo di battaglia, cala a livello del terreno per metterci negli occhi dei soldati. Niente camera a mano, niente scene epilettiche. Il caos lo crea la guerra, non il cameraman.
Ricordo di aver visto qualcosa di vagamente simile in All’ovest niente di nuovo (1930), dove la guerra di trincea è rappresentata magistralmente, nonostante il cinema fosse agli albori.
Tornando a Desmond Doss
Nell’inferno della guerra Desmond Doss si dà un obbiettivo paradossale: salvare vite umane. Desmond resta sul campo di battaglia anche dopo il ritiro delle truppe americane: fruga fra i corpi rimasti a terra, in cerca di quelli che ancora respirano. Se li carica in spalla e poi li cala con una corda dall’alto rivale – il campo di battaglia è in cima a un costone di roccia. In questo modo ne salva 75, di cui due giapponesi. Perché per Doss ogni vita è unica e merita di essere salvata.
A impersonare Desmond Doss è Andrew Garfield, giovane attore più che mai in rampa di lancio. Il personaggio di Doss è perfetto per Garfield: la sua faccia da bravo ragazzo e il fisico allampanato sono quello che ci vuole per incarnare la purezza, la fragilità e la caparbietà di un eroe della fede e della guerra come Desmond Doss. Decisamente un altro Garfield rispetto all’incerto protagonista di Silence di Scorsese.

Negli ultimi minuti il vero Desmond Doss e alcuni suoi commilitoni raccontano alcuni episodi visti nel film. Vedere le belle facce di quei vecchi per me è stato un grande messaggio di speranza: non c’è orrore che possa impedire all’uomo di essere uomo. Desmond Doss ce l’ha dimostrato.
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