Born to run è il disco (quasi) perfetto di Bruce Springsteen. Forse troppo.
Il mio sarà un discorso un po’ moralista, ma sentire il Boss, da sempre icona della working class americana, incidere un album così tecnicamente e stilisticamente ineccepibile, dai suoni puliti e luccicanti, mi sa quasi di male. Lo preferisco quando opta per produzioni meno “lucidate” e più istintive come Darkness on the edge of town e The river.
Eppure Born to run ha un fascino irresistibile, è una roccia di 40 minuti/8 canzoni che non lascia scampo. Prende al cuore e lo fa correre: born to run per davvero, fin dalla prima canzone. Thunder Road inizia come una dolcissima ballata, poi si accende, accelera, esplode come una bomba di romanticismo rurale. Impossibile non citare la parte centrale della canzone (traduzione di Dartagnan):
Io non sono un eroe / Questo si capisce / Tutta la salvezza che ti posso offrire ragazza / Sta sotto a questo sporco cofano / Hey cos’altro possiamo fare / A parte tirare giù il finestrino / E lasciare che il vento soffi / Indietro i tuoi capelli
La notte è tutta per noi / Queste due corsie ci porteranno ovunque / Abbiamo l’ultima possibilità di farlo / Di approfittare di queste ali su delle ruote / Salta su / Il paradiso ci aspetta lungo la strada / Oh oh vieni e prendimi la mano
Stanotte correremo per raggiungere la terra promessa / Oh oh Strada del tuono Oh Strada del tuono
Poi viene l’energica Tenth Avenue Freeze-Out, che personalmente mi fa impazzire per come sconfina nel jazz sponda R&B (mi suggeriscono dall’alto). Segue Night, interessante come coda del trittico iniziale: fondamentalmente l’energia sprigionata nella seconda parte di Thunder Road prosegue ininterrottamente fino a Night.
Night è anche un ottimo ponte per Backstreets, forse la mia preferita dell’album e sul podio delle migliori canzoni di Springsteen. Ha tutto: il pathos, l’energia, la potenza di una band poderosa (la mitica E Street Band), mentre le parole raccontano la fine di un amore vissuto fra le “strade secondarie”, dove la gente si nasconde, scappa e muore ogni giorno.
Born to run chiude il cerchio. I temi sono quelli delle prime canzoni, ma qui assumono toni epici: questa città ti strappa le ossa dalla schiena / è una trappola mortale, un invito al suicidio / dobbiamo fuggire finché siamo giovani / perché i vagabondi come noi, tesoro, sono nati per correre (traduzione di infinititesti).
She’s the one e Meeting across the river sono due brani minori, che scompaiono di fronte agli altri giganti in scaletta, ma sono pur sempre gradevoli.
Durante la parte strumentale della conclusiva Jungleland basta chiudere gli occhi per trovarsi nella migliore delle americhe possibili, anche se la voce calda del Boss racconta un romantico fatto di sangue nella giungla d’asfalto.
Jungleland è il punto di non ritorno: fine dei discorsi, fine dell’album. Nel 1975 non c’era altro da aggiungere. Tre anni dopo, però, Springsteen avrebbe avuto un’altra storia da raccontare: Darkness on the edge of town. Questa volta con un sound più asciutto e ruvido e una voce rabbiosa e graffiante come non mai. Ma questa è un’altra storia…
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