[houdini]
Ogni giorno, prima del lavoro, mi fermo in un parco a leggere.
Leggo Carver e Buzzati. Sì, leggo racconti, ma non importa. O forse sì.
Mi sveglio un quarto d’ora prima per potermelo permettere.
A volte mi chiedo perché, ma poi non rispondo, semplicemente mi siedo su una panchina verde scuro, appoggio la borsa, tiro fuori il libro e leggo un racconto. Così, ogni mattina, dal lunedì al venerdì, inizio la giornata leggendo la storia inventata da un altro.
Non importa che storia sia e chi ne sia il protagonista, non importa nemmeno chi l’abbia scritta. So solo che mi sveglio alle otto, faccio colazione con caffelatte e biscotti ed esco, prendo la metro, raggiungo il parco, a non più di cinque minuti dall’ufficio, mi siedo e leggo.
Intorno a me c’è di tutto. Gente che cammina spedita per arrivare in fretta da qualche parte per poi, magari, andarsene ancora più in fretta, ma anche mamme con i loro bambini o nonne coi figli degli altri: li accompagnano al parco, un parco senza erba ma di un materiale gommoso, spugnoso, permeabile, che asciuga in fretta, non produce fango e non sbuccia le ginocchia dei bambini. I piccoletti giocano sulle giostre, liberi di cadere dall’altalena o inciampare nei lacci delle scarpe, e le nonne li osservano compiaciute, come se ne avessero qualche merito. A non più di tre metri dal parco, le auto corrono, anche loro di fretta; chissà perché sono sempre tutti in ritardo. Dove andranno poi?
Io me ne sto seduto, leggo. Poi, finito il racconto, chiudo il libro e lascio che lo sguardo si perda tra i giocattoli variopinti, e resto lì, ancora col volume tra le mani, come per assimilare quel che ho appena letto.
Dopo un po’ mi alzo e lo rimetto nella borsa, la chiudo, me la isso in spalla e mi accingo a lasciare il parco. Allora incrocio lo sguardo delle madri, delle nonne, e ne rimango turbato. Inginocchiate davanti ai propri figli, per riassettare i loro vestiti, hanno paura. Temono che possa rubar loro i marmocchi? O che mi voglia impossessare di un parco non mio? È come se leggessero sul mio viso la città da cui vengo. Che non è Milano. Ma no, ecco cosa sembrano dire: se potessi permettermi un giardino con qualche balocco, pascolerei lì mio figlio, non lo porterei di certo in un posto come questo dove s’incontra gente come te. Io non rispondo al loro sguardo, sposto la mira sulle siepi rifinite e i sassi incastonati nel terreno: loro costituiscono il sentiero per uscire da lì.
Guardo tutto, senza fretta, e tutto guarda me. Una siepe vibra al mio passaggio, il cancelletto del parco cigola aprendosi: le cose sembrano ringraziarmi. Grazie Martino perché ci guardi, perché ci commiseri, perché ci usi. Non chiedono altro che essere vissute, le cose.
Sono di nuovo in strada, tra la gente. Chiunque potrebbe confondermi per uno dei tanti con gli auricolari nelle orecchie, ma loro non sanno, loro mi conoscono, loro… chiedetelo alle siepi del parco, ai sassi del sentiero, alla panchina verde che si sta lentamente scrostando, chiedetelo a loro chi sono io.
mercoledì 5 settembre 2007
0 commenti