Non conosceva né preti né sindaci

9 Giu 2010 | Racconti | 0 commenti

Questo è un racconto di protesta. Niente di serio, per carità: una protestucola da ridere sotto forma di racconto per il concorso Blusubianco Müller 2010.

Blusubianco Müller

In Italia fioccano i concorsi letterari ma sono pochi quelli gratuiti. Uno di questi, segnalato da un amico, è Blusubianco organizzato dalla Müller (quella dello yogurt) in collaborazione con la Scuola Holden. Ogni mercoledì, per 8 settimane consecutive, veniva pubblicato un incipit da completare entro la domenica con un racconto dalle 1.800 alle 10.000 battute.

Mai come in questo concorso gli incipit mi hanno scoraggiato.

Avevo scritto un raccontino la terza settimana: non era un granché e infatti è stato scartato. Il mercoledì dopo l’incipit non mi convinceva: era “troppo incipit”: invece di liberarmi la fantasia le tarpava le ali. Forse perché oltre a un’idea suggeriva un tono narrativo. Non so se mi capite. Provo con un esempio: è come se Picasso dovesse finire un quadro di Giotto.

Passavano le settimana, passavano gli incipit, il concorso volgeva al termine e non riuscivo più a scrivere nulla. Leggevo l’incipit e mi bloccavo. Lo rileggevo e notavo ulteriori paletti. Alla fine desistevo.

Braveheart

L’ultima settimana mi sono ribellato. Fa sorridere usare questi termini per una cosa di così poco conto – per questa “ribellione” non finirò sui libri di Storia né in un film di Mel Gibson – ma è interessante il risultato. Almeno credo.

Be’, il risultato è il raccontino che segue. Le prime 10 righe virgolettate sono tratte dall’incipit di Giusi Marchetta, la curatrice del concorso.

[houdini]

Non conosceva né preti né sindaci

“Credo nelle persone buone e nelle cose che so fare.
E credo che tu sia la più buona che conosco e più brava di me a fare praticamente tutto.
Per questo ho fatto tutto quello che ho fatto e mi sono precipitato qui.
Perché penso, anzi, perché sono sicuro, che dovremmo farlo.
Sono sicuro che dovresti infilarti questo anello e dire sì davanti al primo prete che incontriamo o al sindaco, perché so dove abita e non sarebbe un problema.
Solo sì.
Sono sicuro che dovresti fare quest’unica, semplice cosa.
Perché ne ho bisogno, perché ti amo.
E perché sapresti farla benissimo.”

Depose il foglio, lo riprese, lo rilesse e lo accartocciò. Così non andava: era un testo infimo, non l’avrebbero accettato nemmeno come incipit di un Harmony per ritardati mentali. E lui non era un ritardato. Eh no, aveva sfiorato le cinquantamila copie con La città del tramonto, romanzo rivelazione dell’anno scorso. Poco importava che l’avesse scritto sua madre, morta cinque anni prima. Lui l’aveva trovato, riletto, battuto a computer, corretto qua e là – era un signor editor: su questo non si poteva dir nulla – e inviato ai dieci editori più importanti del paese.
Risultato: 50.000 copie. Con Sellerio, mica pizza e fichi.

Però non sapeva scrivere. Non che sbagliasse a coniugare i verbi, o non sapesse che un punto ogni tanto fa prendere respiro al lettore ma, se troppo frequente, glielo fa perdere. No, no: erano trucchi che padroneggiava quasi come Ellory, il re della scrittura telegrafica. È che non aveva fantasia. Per niente. Qui, per esempio, era già fermo. Ok, lui le chiede di sposarlo, e allora? Che noia! Si capisce già che lei gli dirà di no. Il motivo non conta, non è interessante. Che sia perché ha un amante, è musulmana o indù non ha importanza: lei deve dirgli di no. Altrimenti che sviluppo ci può essere? Fosse per lui, metterebbe il punto e chiuderebbe qui il romanzo. Ma un romanzo di dieci righe non s’è mai visto.

Finiva per leggere più volte i suoi inizi. Ne aveva scritti un mare, di inizi. Li scriveva a computer, un vecchio Olivetti del millennio scorso, poi li stampava. Li stampava perché non riusciva a leggerli a video: era fatto così, un tipo all’antica.
Rileggendoli, si accorgeva che facevano cacare. Allora li appallottolava e gettava nel cestino della carta, che era nell’angolo a sinistra, dall’altra parte della stanza. Però conservava il file.

Aveva scritto trecentoundici incipit e zero romanzi. Se è per questo, non aveva mai finito nemmeno un racconto. Si annoiava prima. Detestava sapere come andava a finire: smetteva di scrivere per mancanza di curiosità. Avrebbe fatto di tutto per acquistare un etto di fantasia. Ma non c’era niente da fare. Aveva provato anche con l’LSD: non aveva funzionato. Per l’amor di Dio, s’era fatto un gran trip di qualche ora; quando aveva ripreso coscienza stava cantando “Romagna mia” abbracciato al bidè, ma non ricordava nulla. Zero assoluto. “Allora a cosa serve sballarsi?” si era chiesto. “A niente” si era risposto.

E questo incipit, questo matrimonio, cosa stavano a dire? Niente. Erano un altro buco nell’acqua. Tirò su col naso, spinse indietro rumorosamente la sedia, si alzò, andò in cucina, aprì il frigo, prelevò una Tuborg e la stappò tirando la linguetta. “Geniale quest’apertura” si disse. Lo pensava ogni volta che stappava una Tuborg. Non gli piaceva granché la Tuborg, ma costava poco e si stappava facilmente; tanto, quando serviva, lo stappa-bottiglie era sempre sotto qualche mobile.

Non era un ubriacone, non era uno che beveva parecchio, non era alcolizzato: beveva solo quando finiva una storia. Siccome di storie non ne ha mai finite, beveva quando le abbandonava. Scriveva un incipit al giorno, che facevano una birra da 66 cl al giorno. Non riteneva che questo fosse etichettabile come “bere troppo”. Era bere, punto. Chi non beveva mai? Forse solo nel Sahara c’era qualcuno che non beveva mai, ma non viveva abbastanza per raccontarlo.

Con la sua birra si andava a sedere sullo sdraio, in terrazzo, guardando le macchine piccole piccole fare la fila sulla via per Porta Genova. Abitava al decimo piano e non lavorava. Si era licenziato l’anno scorso, subito dopo aver ricevuto l’assegno per la copia n° 20.000. Campava di rendita, ma doveva scrivere un altro romanzo. Non avrebbe tirato avanti ancora per molto con i soldi di La città del tramonto.

Finiva sempre col pensare a queste cose quando beveva. Le pensava quando beveva perché beveva dopo aver fallito un romanzo. Pensava perché falliva: stava qui il suo errore. Doveva pensare per non fallire, ma lui faceva il contrario: falliva e poi pensava.

All’improvviso si accorse che, a differenza del tizio del suo incipit, non conosceva né preti né sindaci. La cosa lo lasciò sgomento per qualche secondo. Poi decise che non aveva importanza, tanto non aveva nessuna a cui regalare l’anello. Sorrise, bevve un altro sorso e lo sputò nel vaso della pianta grassa che teneva in terrazza. La saliva mista birra prese a sfrigolare piano piano, mentre il terreno molliccio del vaso iniziava ad assorbirla. Ma prima della saliva, si riassorbì il suo sorriso.

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