In memoria di Guardigli

27 Apr 2010 | Racconti, Sul vivere | 4 commenti

È scomparso recentemente il mio prof Pierluciano Guardigli. Ci siamo conosciuti nel 2007 alla Scuola di editoria del Centro Padre Piamarta di Milano, dove teneva il corso di scrittura. Fin da subito è iniziato un rapporto di amicizia e stima reciproche che non si è più interrotto. A lui vanno il mio pensiero e le mie preghiere, insieme a questo breve racconto.


È una storia lunga, mette le vertigini al solo pensiero di raccontarla per intero. Poi basta iniziare per capire che sono quattro fatterelli in croce e in cinque minuti si dice tutto. Ma si sa, non è un fatto di quantità, chili o minuti: è l’intensità a far paura.

Tra due persone cosa può mai succedere? Le solite cose vecchie mille anni… eppure non smettono di sorprendere.

L’ultima volta che lo vidi era dimagrito parecchio, dimostrava dieci anni di più. A istinto doveva averne settantacinque.

Camminammo un po’ per le vie di Milano, zona Buenos Aires. Era un sabato pomeriggio di inverno, quasi sera, già buio. Lui tossicchiava, ricordando a se stesso che doveva star fuori poco per non raffreddarsi.

Camminavamo piano per vie poco trafficate. Ascoltava in silenzio le mie chiacchiere sulla Romagna, i progetti di scrivere un romanzo e le speranze di conoscere qualche brava ragazza – teneva in particolar modo alla mia vita sentimentale: me ne chiedeva sempre, al che avevo preso l’abitudine di parlargliene senza attendere una sua domanda esplicita. Tutta roba campata per aria, dal momento che non avevo mai superato le trenta pagine e nella mia vita non c’era lo straccio di una femmina. Solo la Romagna era autentica.

Ogni tanto bofonchiava un incoraggiamento, mandando a spasso due occhi piccoli piccoli e impauriti, azzurri di indole e grigi d’età. Poi mi interrompeva per fare una domanda qualsiasi: “come stanno i tuoi? Come va il lavoro? Mandami qualche racconto nuovo”. Erano domande semplici e banali, ma a lui interessavano veramente le risposte. Allora io ce la mettevo tutta per dire qualcosa di interessante.

I racconti poi glieli mandavo, ma lui non commentava mai. A volte lasciava uscire un laconico “bene, bene, continua così: hai bisogno di scrivere”, e, d’improvviso, “hai letto Lo straniero di Camus? Leggilo, ti può aiutare”.

Finii per leggere Camus e mi piacque anche, così quando glielo dissi mi aspettavo un po’ di riconoscenza e invece niente, tirò dritto per la sua strada. La verità è che non gli interessava molto se leggevo Camus o Camilleri, Dario Fo o Arrigo Petacco; era un modo per partecipare alla mia vita con quei quindici minuti semestrali che erano i nostri incontri.

Dopo un po’ mi raccontava di sé. Era appena stato dimesso dall’ospedale, le insufficienze cardiache andavano e venivano e lui andava e veniva dall’ospedale al ritmo che decideva il suo cuore. Quel cuore romagnolo in esilio a Milano doveva aver vissuto e sofferto parecchio, godendo di soppiatto di gioie inaspettate.

Quindi tornava alla Scuola di editoria, che era anche dove c’eravamo conosciuti. I suoi progetti, le lezioni che ricominciavano e lui se ne addossava ancora la gran parte. Faceva progetti come se avesse avuto tutta la vita davanti.

Allora gli chiedevo se aveva insegnato ad altri scrittori o aspiranti tali. Gli davo il pretesto per sfogarsi un po’ dell’indolenza e scarsa applicazione delle nuove generazioni, ma un nome nuovo – una nuova speranza! – lo tirava fuori sempre. E così, in un modo o nell’altro, arrivavamo davanti a casa sua e il saluto veniva male, frettoloso: una stretta di mano e via, ognuno nel suo mondo.

Era in questi quarti d’ora che mi sentivo piccolo piccolo, insignificante di fronte al mistero di un’amicizia, che è poi lo stesso Mistero della vita e della morte.

Altre volte lo avevo incontrato, oltre che a lezione, nel suo ufficio di Turro. In strada, sul grosso viale milanese, sembrava un dinosauro in discoteca. Non se ne preoccupava minimamente. Lasciava che macchine tram e persone corressero per i fatti loro e arrivava sempre dove voleva andare. Gli piaceva prendere un prosecco al bar o una pizza in un brutto ristorante milanese. Una volta mi portò al kebab: c’erano turchi, cinesi, africani e milanesi. L’unico di un’altra razza era lui: movimenti lenti, occhiate furtive, cappotto lungo anche se non faceva proprio freddo. Qualcuno lo guardava, stranito di vedere “un vecchio” mangiare kebab; lui dava un altro morso al panino come a dire “lo vedi, siamo uguali”.

In questo modo si stava insieme, parlando un po’ di tutto e un po’ di niente, e quando prendeva in giro qualcuno si capiva che gli voleva bene.

Un passo dopo l’altro lo riaccompagnavo nel suo ufficio, all’interno di una palazzina con giardino interno cementato. Da lì portava avanti le sue mille attività, i circoli culturali, le presentazioni di questo o di quel libro, le pubblicazioni di quartiere e qualche collaborazione con piccole o grandi case editrici. Chissà se scriveva lì le sue poesie. Non me ne fece mai leggere una. Aveva vinto un prestigioso premio letterario “quando era ancora una cosa seria”, poi qualcosa l’aveva deluso e da allora non aveva più pubblicato nulla.

Era fatto così, credeva ancora nelle persone.

Ricordo alcuni scrittori che amava: Pascoli, Rebora, Fenoglio. Il giorno che ce ne fece leggere una poesia, presentò Rebora come “un grande poeta cattolico”, dove per “cattolico” non intendeva certo un complimento. Tuttavia ce lo propose. Mica era obbligato: le lezioni di scrittura vertevano su argomenti a fantasia del docente, che poi era lui. Ma il suo criterio era un altro, il criterio della grandezza. Riconosceva, rispettava e valorizzava il buono che vedeva in ciascun uomo, anche se la pensava diversamente. Un modo di fare facilmente condivisibile: basta essere onesti. Per vivere così, però, bisogna essere uomini.

4 Commenti

  1. Antonella Doria

    Caro Martino, il tuo ricordo di Luciano mi ha molto commossa. Gli volevamo tutti molto bene, per la sua umanità per la sua intelligenza per la sua competenza.Tutte cose che messe insieme facevano di lui una persona veramentente speciale.Abbiamo condiviso la passione poetica e la passione politica. E’ una persona che farà parte sempre di noi, della nostra carne dei nostri pensieri. ciao Antonella

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  2. Giusi Busceti

    Gentile Martino Savorani,cercando scritti su e di Pierluciano,per preparare il ricordo che di lui faremo al Trotter il 9.6 prossimo h.18,abbam trovato te ed è chiaro che hai un forziere di piccoli istanti con lui.Vieni a parlarne,il 9?scrivi a:giusi.busceti@tiscali.it e coordiamo al più presto(deve partire locandina)il tema su cui puoi contribuire,se vuoi.Grazie per quanto hai scritto di Luciano:non perchè è bello, ma perchè è umano come il kebab,come il cappotto lungo, come lui. Giusi

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  3. laura

    Caro Martino, mi permetto di darti del tu. Anch’io per poco sono stata sua allieva, ma era come se fosse stato così da sempre e per sempre. Non mi era mai successo. Grazie del tuo racconto, mi hai commosso. Anzi mi avete commosso.

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  4. Martino Savorani

    Vi ringrazio per i vostri interventi, che confermano il carattere contagioso della simpatia e dell’umanità di Guardigli.

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  1. Il Segnale » Martino Savorani - [...] rivista “Il Segnale – percorsi di ricerca letteraria” ha pubblicato il mio racconto-ricordo di Guardigli sul numero 86 di…

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