[houdini]
Le grosse pareti grigie sapevano di muffa e umidità; un’enorme tavola di un legno come non se ne trovano più resisteva nel mezzo della stanza. La luce faticava a raggiungere la cantina, se non per mezzo di una finestrella ridicola posta sulla parete che dava a est: da lì, se si era fortunati e pazienti, si poteva intravedere il sole sorgere fra i pioppi e oltre fiume, ma solo per qualche secondo.
Non era più nemmeno una finestrella, da quando l’inondazione del ’72 ne aveva disintegrati i solidi vetri; rimaneva solo la grata, una grata sottile ma robusta, dalla quale sarebbe passata con fatica la mano di un bambino.
Una casa ben arredata poggiava su quella cantina fredda e puzzolente, ma il fasto di cui godeva la zona abitabile era dovuto interamente al contenuto della cantina Per questo i muri bianchi e lisci del salotto e delle camera da letto, adornati di quadri non autentici ma quasi e arricchiti da favolose Madonne col Bambino e lampadari a muro in bronzo vivo, mantenevano un certo rispetto per quelle pareti butterate cui dovevano la loro esistenza.
Nella cantina spuntavano mensole dappertutto, ricolme di bottiglie di vino di ogni qualità, tranne in corrispondenza della finestra. Lì alle mensole era stato preferito un mobile color avorio con vari ripiani; leggermente discosto dalla parete, arrivava fin quasi al soffitto per sfruttare appieno lo spazio disponibile. Proprio perché diverso da tutto il resto, aveva finito per esser destinato alle bottiglie migliori. Vi venivano disposte in fila singola anziché doppia come sulle mensole, sopra i bianchi e sotto i rossi, in ordine di gradazione. Solo il ripiano più in alto trasgrediva questa regola: lì stavano tre bottiglie solamente; c’era chi sosteneva che con i soldi che si beccavano a venderne una si poteva comprare un’automobile.
Queste tre bottiglie raramente parlavano con le altre, tanta era la differenza di classe sociale. Piuttosto che frammischiarsi con la folla delle mensole, si annoiavano e oziavano tutto il giorno, contentandosi di mandare l’occhio fuori dalla finestrella di tanto in tanto. C’era stato un periodo in cui una di loro, un Bardolino d’annata, aveva stretto amicizia con un Chianti del piano sotto, ma dopo numerosi ammonimenti dei due compagni, si era visto costretto a rinunciarvi, per non disonorare il proprio rango agli occhi dell’Oltrepò Pavese e del Grignolino.
Un altro inverno era trascorso e la primavera era pronta a sbocciare con lo slancio tipico della gioventù. Il vento si era mitigato e i tre vini se ne rallegravano: bastava poco per soddisfarli, perché il miraggio di un acquirente disposto a prenderli con sé, accudirli, amarli e gustarli era un pensiero troppo lontano, troppo faticoso da sostenere senza procurarsi afflizione; ben più facile era l’attesa mite e senza pretese, come pie donne che attendono il marito di ritorno dalla guerra. Ma una mattina qualcosa iniziò oltre la finestrella.
“C’è del movimento tra l’erba” fece notare Grignolino che, avvantaggiato dal suo lungo collo, scorgeva meglio degli altri quel che capitava fuori. I fili d’erba iniziavano a farsi da parte, come sudditi che preparavano la venuta del re, della regina o di entrambi, ma nient’altro si poteva capire da dentro la cantina. Solo un’ombra, alta, secca e aguzza, di cui non si vedevano l’inizio e la fine, aveva preso l’abitudine di stendersi davanti alla finestrella, inquietante presenza nei pomeriggi dei tre vini pregiati.
Tutto accadde una notte, ma i vini dormivano e non si avvidero del mutamento se non al risveglio. Qualcosa era entrato dalla finestra. E non se n’era ancora andato. Penzolava dalla grata, delicatamente arrendevole; degli aculei cutanei promettevano dolore, privando di ogni dolcezza un aspetto comunque armonioso. In cima all’esile corpo una testa come un calice di vino, larga alla base e acuta in punta. Bardolino non aveva mai visto una cosa del genere, anche gli altri non ne sapevano molto di più. L’interesse iniziale si dissolse in fretta per colpa del silenzio del nuovo venuto, e presto fu sera e di nuovo mattina e di nuovo sera.
A volte, durante le loro stantie conversazioni, Bardolino si voltava per controllare l’ospite, avendo come il presentimento che qualcosa dovesse prima o poi capitare. Allora Grignolino, sempre più insofferente, si innervosiva subito e invocava attenzione, che mica parlava a vanvera lui, esigeva ascoltatori attenti e, laddove richiesto, partecipativi.
Oltrepò, il più pregiato dei tre, soffriva maggiormente la solitudine per la pochezza di argomenti di Grignolino e la sbalorditiva ingenuità di Bardolino, e si chiudeva in lunghi silenzi, ma quando apriva la bocca gli uscivano frasi che suonavano saccenti se non proprio prepotenti, malgrado non ne avesse l’intenzione. Così ritornava taciturno e succube delle parole di Grignolino.
Una settimana dopo l’arrivo del singolare ospite, quando oramai nemmeno Bardolino attendeva più alcunché, qualcosa accadde. Il capo iniziò a mutare; in apice spuntò un ciuffetto di filamenti verdi e aguzzi, mentre la base – solo allora se ne accorgevano! – si era fatta larga, anzi, tutta la dimensione dell’ospite era cresciuta, forse raddoppiata, in un misterioso silenzio. Che fosse dunque giunta la fine per tutti loro? Di questo passo, in poche settimane avrebbe occupato interamente l’ultimo scaffale, facendoli precipitare giù, sul pavimento, dove si sarebbero infranti vanificando mesi, anni di maturazione interiore: che morte orribile per dei sì nobili vini!
Trascorsero la notte nel terrore di quest’eventualità, ma il mattino dopo il corpo peraceo sbocciava in un meraviglioso fiore. Anche se non aveva ancora dispiegato totalmente i suoi petali, che restavano piegati come ali troppo giovani per volare, dava a intendere che era solo questione di tempo. Oltrepò soffocò ogni impulsività iniziale mentre Grignolino e Bardolino coprivano di parole la loro curiosità, e solo quando fu sicuro del discorso che stava per fare e certo d’avere ascolto, parlò. Si trattava di una rosa canina, comunemente definita selvatica, che cresceva spontaneamente ai margini di boschi e siepi. Oltrepò non avvertì il peso delle sue parole se non dall’espressione stupita degli altri due, e si sentì in dovere di scusare l’eccesso di conoscenza ammettendo, non senza arrossire vistosamente, che aveva letto quelle cose anni or sono su un giornale di giardinaggio dimenticato dal padrone sul tavolo della cantina. Ma Bardolino già non ascoltava più, impegnato com’era a trovare le parole migliori per domandare il nome all’ospite, che solo ora aveva scoperto essere un’avvenente fanciulla.
Le prime ore videro una conversazione zoppicante per la timidezza forse intenzionale di Rosa e l’arditezza impacciata di Bardolino, il quale si quietò solo verso mezzogiorno. Giusto in tempo per sottoporsi ai primi sfottò di Grignolino, che, indovinato il debole del compagno per la giovane, impiegava tutta la propria astuta ignoranza per svergognarlo, incurante d’essere udito anche dall’oggetto dei suoi frizzi. In quelle occasioni Oltrepò restava zitto al suo posto, lanciando occhiate di disapprovazione all’indirizzo del bizzoso compagno, che però si guardava bene dall’interrompere il flusso di sberleffi contro Bardolino.
Nei giorni che seguirono si venne a delineare una sorta di competizione, dove ognuno cercava di farsi bello agli occhi di Rosa. Bardolino la vezzeggiava tutta la mattina, per poi subire le beffe di Grignolino nel pomeriggio, il quale – “povero illuso” pensava Bardolino – altro scopo non aveva che farsi bello agli occhi del fiore; la sera, invece, aveva campo libero Oltrepò, che intratteneva tutti e tre con racconti di epoche lontane, battaglie eroiche sulle rive di fiumi o a cavalcioni di crinali, e sempre arringava rivolto a Rosa, come se non ci fosse che lei, con gli altri due ben lontani dall’accorgersene, impegnati pure loro a contemplare la bellezza della fanciulla. Era un copione che si ripeteva giorno dopo giorno, nelle forme e nei sentimenti, senza che nessuno si arrischiasse a fare il passo decisivo, quasi si contentassero del proprio momento di protagonismo, rinviando il tentativo di renderlo perpetuo per timore di un rifiuto. La rosa, forte della sua bellezza e del suo silenzio, giovava, lusingata, delle attenzioni dei tre cavalieri, senza incoraggiarne alcuno per non far torto agli altri. Così ognuno viveva di una felicità incompleta che per nulla avrebbe messo in gioco, per paura di perderla.
Giunsero più volte sul punto di fare il grande passo, ma il ricordo della vita di prima, quando il grigiore dei muri la faceva da padrone, bloccò in loro ogni slancio.
Dopo settimane segnate da gioie e gelosie, tutto cambiò. Una mattina la rosa si risvegliò con il volto contrito e subito tutti, senza eccezione, si impiegarono per risollevarle il morale; Oltrepò addirittura organizzò in un coro le bottiglie delle mensole e le diresse in un’avventurosa interpretazione del tema principale delle Nozze di Figaro, ma a nulla servì. Rosa stava morendo in silenzio come in silenzio aveva vissuto, decisa a serbare il terribile segreto che l’uccideva.
In breve non rimase che il ricordo della sua antica grazia, e un cumulo di petali e foglie raggrinzite che il vento portò via di notte.
L’iniziale sgomento per il triste esito della vicenda si tramutò in accuse pesantissime: Grignolino additò i compagni quali principali responsabili del misfatto: con tutte le loro parole avevano finito per soffocare la spontaneità di Rosa. Oltrepò non reagì alle accuse, chiudendosi in un silenzio che venne rotto solo da un fugace “ciao ragazzi” detto all’ultimo, mentre il padrone lo prelevava una mattina di settembre per consegnarlo a un americano col pizzetto grigio e gli stivali a punta quadra.
Rimasti soli, lentamente si riappacificarono, non trovando più gusto nell’attaccarsi a vicenda.
Ma una sera la mano grassa e curata della moglie del padrone li afferrò e, senza riguardo per i loro trascorsi, li ripose nel secondo scaffale, per collocare in alto, nella posizione di prestigio che dominava la cantina, tre giovani bottiglie dalla bella etichetta luccicante.
Grignolino e Bardolino, decaduti, non conobbero più la pace vera. Tormentati giorno e notte dagli sguardi sprezzanti dei vini meno pregiati, che mai li invitarono nelle loro discussioni, a confortarli rimase solo il ricordo di Rosa, che di tanto in tanto tornava, specie nella stagione fredda, quando il gelo toglieva la voglia di rivalsa agli altri vini e concedeva loro la sospirata tranquillità.
Anni dopo, quando furono acquistati a un prezzo ridicolo rispetto al loro reale valore, giunse il momento della separazione. Allora, una lacrima di vino corse lungo il collo e la pancia delle bottiglie, per spegnersi sul grigio pavimento della grigia cantina come una stella cadente nel fosco cielo invernale.
sabato 14 – lunedì 16 giugno 2008
0 commenti